Come cantava Claudio Lolli, c’è stato un tempo in cui a Roma i nomadi provenienti dalla Jugoslavia erano, almeno alcuni, persone gentili e oneste.
I Korakanei, ad esempio, lavoravano il rame e vendevano paioli e pentolame in giro per la città. Nonostante questo, non erano ben visti.
Paese Sera mi mandò a fotografare una piccola comunità accampata nei pressi dell’Acquedotto Alessandrino. Alcuni abitanti li avevano accolti a suon di bottiglie incendiarie: la discriminazione razziale era solo agli inizi, ma nelle periferie romane – da sempre alle prese con altri problemi – i nomadi erano già "marchiati" prima ancora di arrivare.
Parlai con il capo del campo, che in qualche modo garantì per la mia incolumità (non tutti amavano essere fotografati), e riuscii a realizzare il servizio.
Il giorno dopo tornai con il giornale, che parlava bene di loro, e con alcune foto in bianco e nero che non erano state pubblicate. Finì che mi offrirono un caffè servito in tazze improbabili. Pensai: “Vabbè, al massimo mi prenderò qualche batterio intestinale”, ma ne valse la pena. Potei scattare foto a tutti, e tutti erano felici della mia presenza.
Qualche abitante dei palazzi di fronte me ne disse di tutti i colori, ma rimasi lì fino al tramonto, aspettando la luce giusta. Poi me ne andai.
Anni dopo li ho rincontrati, la notte di Capodanno del 1986, passata interamente con tre gruppi di etnie diverse. Quando il capo mi riconobbe, diventai – insieme alla mia collega – un ospite graditissimo.
Fu uno dei Capodanni più strani e belli della mia vita.